Carissimi lettori e followers di latusanniae.com è un piacere ritrovarvi intenti a scorrere le pagine virtuali del nostro sito!
Sono Donatella Buffon, una nuova iscritta della grande famiglia di Latus Anniae e mi presento a voi con questo articolo, il quale tratta un tema a me molto caro sia per la professione che svolgo, sia per una questione etica e di sensibilità verso l’ambiente, lo spreco e la sfruttamento della manodopera nel Mondo.
Per saperne di più su di me vi rimando alla sezione “CHI SIAMO” del nostro sito e vi auguro una buona lettura!
“Ciao Dona, come va?
Senti ma tu che sai, spiegami la questione della fast fashion.
Ne stanno parlando in Europa, è stata discussa una mozione a riguardo anche nel Consiglio Regionale FVG…vorrei capirne di più…”
Questa potrebbe essere la sintesi di un messaggio vocale ricevuto da un amico pochi giorni fa.
Lo ascolto con un mezzo sorriso, perché chi mi conosce sa che si tratta di uno dei miei principi, uno dei capi saldi della mia attività nel mio piccolo: la lotta alla fast fashion.
Ma partiamo dall’inizio: cos’è la fast fashion?
Cercando su Google troviamo questa definizione:
“Settore dell’industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda ma messe in vendita a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi.”
A leggerla così può sembrare qualcosa di positivo, comodo, “figo”.
Certo, se non fosse per i retroscena: sfruttamento della manodopera, delle risorse idriche e ambientali, bassa qualità del prodotto e iperproduzione di abiti senza garanzia di vendita e quindi con il rischio di finire nelle discariche perché non vi è un processo di riciclaggio a monte.
Mettete insieme tutto questo ed ottenete un capo di fast fashion.
Ancora “figo”?
Io non credo.
Si è iniziato a parlare del problema fast fashion dieci anni fa dopo il crollo del Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh.
Una strage annunciata.
Da giorni si vedevano crepe e si udivano rumori strani in quel palazzone.
I negozi, gli appartamenti e l’istituto bancario erano già stati evacuati, ma alla fabbrica tessile le dipendenti (quasi la totalità donne) erano state minacciate: avrebbero perso il lavoro se non si fossero presentate.
Oltre mille e cento vittime accertate, circa duemila i feriti estratti dalle macerie.
Ho i brividi solo a pensarlo.
Wikipedia definisce l’accaduto “il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia” e si poteva evitare, si doveva evitare.
E invece no, la fast fashion aveva bisogno dei suoi pantaloni da pochi Euro, o dell’ennesima t-shirt che al primo lavaggio perde forma e colore.
I marchi coinvolti li lascio cercare a voi, io preferisco andare oltre, trovare il lato positivo dietro questa tragedia, se così si può dire.
Perché come sempre una disgrazia fa aprire gli occhi alle persone su cosa accade attorno ad esse, siano accadimenti locali o distanti.
Da questo evento sono nati movimenti come la Fashion Revolution o il Movimento Moda Responsabile i quali hanno contribuito enormemente anche tramite azioni concrete, raccolte firme e sensibilizzazione pubblica, a dar vita ad una nuova sensibilità anche ai più alti livelli istituzionali, e tutto ciò ha portato alla decisione dell’Unione Europea di quest’anno.
Citando le parole pronunciate a Bruxelles:
“La nuova strategia comprende nuovi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e l’invito per le aziende ad assumersi la responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di Co2 e ambientale.”
L’Unione Europea, propone delle certificazioni per i produttori che rispettano i criteri ecologici, garantendo un uso limitato di sostanze nocive e un minore inquinamento idrico e atmosferico, inoltre, secondo la direttiva sui rifiuti approvata dal Parlamento Europeo nel 2018 a partire dal 2025 è prevista una raccolta differenziata dei tessuti.
Voi direte bene. Io dico “ni”.
È un inizio, è un punto di partenza, ma lo sfruttamento delle risorse è solo una parte del problema.
I problemi da affrontare sono vari, inizierei da una comprensione anche personale di quello che acquistiamo.
Quindi iniziare a limitare gli acquisti, ad acquistare da marchi che producono in Italia ed in Europa dove quanto meno si possono tracciare i prodotti e conoscerne le specifiche.
Marchi che rendono tutto chiaro e non si nascondono dietro il greenwashing.
Usiamo gli abiti che abbiamo fino alla fine dei loro giorni e poi cerchiamo di trovargli nuova vita, regaliamo o trasformiamo.
Non compriamo compulsivamente con la scusa “ma poi faccio il reso e mi lavo la coscienza”.
Sappiate che una buona parte dei resi finisce in discarica, perché nelle grandi produzioni della fast fashion non è previsto il recupero dei resi, iter che richiede il controllo della merce resa, la sanificazione ed eventualmente rimessa in vendita.
Costi che non rientrano nel capo della fast-fashion.
Pensando in un ottica del riciclo del tessuto è importante scegliere abiti con fibre pure o con mescolanze minime perché più facili da riciclare.
E, a proposito di fibre, scegliamo quelle certificate che siano fibre naturali, artificiali o sintetiche.
Dopo tutto questo, rimane in sospeso una questione che forse sarà più difficile da affrontare, poiché esce dalla giurisdizione dell’Europa ed è l’annoso problema dei giusti salari.
Per questo è nata la campagna “Good Clothes, Fair Pay” (bei vestiti, salari equi) attraverso la quale si invita la Commissione Europea a presentare una proposta legislativa che imponga alle imprese attive nel settore dell’abbigliamento e delle calzature di esercitare la dovuta diligenza per quanto riguarda i salari di sussistenza nelle catena di approvvigionamento.
Perché, giusto per dare qualche numero a riguardo per provare a comprendere il problema, sono circa 70 Milioni le persone nel Mondo che lavorano nel settore dell’abbigliamento e del tessile, delle quali l’80% sono donne.
Guadagnano in media due volte meno di un salario che permetta di vivere in condizioni dignitose.
Per produrre in tempi brevi e sfornare continuamente nuove collezioni, in grandi quantità e a prezzi bassi, le aziende spesso riducono i costi di produzione e iI salario medio di un lavoratore nel settore della moda rappresenta solo lo 0,6% del costo del capo finito.
Questa è la situazione attuale.
Spero di aver dato una panoramica della situazione al momento.
Io nel mio piccolo cerco di fare informazione, cerco di trovare sempre idee per recuperare gli abiti, per non sprecare il tessuto e dargli circolarità.
Ecco perché rimango basita dalla scelta della maggioranza di Governo Regionale, di bocciare un Ordine del Giorno presentato dalla Consigliera Regionale Giulia Massolino del Gruppo consiliare “Patto per l’Autonomia – Civica FVG”, il quale proponeva l’istituzione di un buono dai 10 ai 20 Euro per chiunque lo richiedesse, spendibile in riparazioni dei capi d’abbigliamento.
Un modo intelligente non solo per cominciare a contrastare la fast fashion e lo spreco di materiale, non solo per evitare nuova immondizia da smaltire, ma anche utile a sostenere i vari artigiani del settore sartoriale presente in Friuli Venezia Giulia.
Speriamo cambi il vento e si possa portare un giorno la nostra Regione ad un livello diverso di consapevolezza ed azione concreta verso queste ed altre tematiche molto impattanti.
Questo articolo è nato tanto dalle mie conoscenze quanto dalle fonti che ho consultato, troverete alcuni link “nascosti” lungo il testo (grassetti e corsivi) ed altri ve ne metto qui a seguire per chi volesse approfondire.
E grazie per essere arrivati alla fine del mio primo “pezzo”…vi ricordo che i clienti siamo noi pertanto il nostro potere d’acquisto e nostre scelte consapevoli possono veramente cambiare la rotta…se avete voglia di parlarne di persona vi basterà raggiungermi nel mio laboratorio in Piazza Caduti della Julia a Latisana, vi aspetto!
Buon proseguimento su latusanniae.com!
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Articolo scritto a quattro mani da Donatella Buffon e Gianluca Galasso.